Il termine è tradotto con “lavoro intelligente”, “lavoro abile” o “lavoro agile”: è lo Smart working, definito nella legge 22 maggio 2017 n.81, e viene utilizzato per indicare una modalità di lavoro non vincolata da orari o da luogo di lavoro, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro.
Ha trovato diffusione nei periodi di lockdown dovuti alla pandemia di SARS-CoV-2 quando era un obbligo ( fino alla fine dello stato d’emergenza, 31 marzo 2022) dovuto alle necessità di quarantene e distanziamento, ma è pur vero che è diventata una filosofia manageriale aziendale delle Piccole e Medie Imprese che costituiscono il motore dell’economia, e che garantisce flessibilità e autonomia in una nuova prospettiva e in una nuova cultura organizzativa del lavoro a distanza.
Statisticamente, secondo una ricerca dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, dal 2018 a oggi, si è avvalso dello Smart working ben il 97% delle grandi imprese, il 94% della Pubblica Amministrazione e il 58% delle Piccole e Medie Imprese (PMI), per poco meno di 7 milioni di lavoratori indipendenti italiani.
Nell’anno del primo lockdown, marzo 2021, gli smart worker erano 5,37 milioni, di cui 1,95 milioni nelle grandi imprese, 830 mila nelle Piccole e Medie Imprese, 1,15 milioni nelle micro imprese e 1,44 milioni nella Pubblica Amministrazione.
Numeri che hanno visto abbassare la media in virtù del graduale ritorno alla normalità con il rientro negli uffici, ma che tuttavia non segna la fine dell’era Smart working, anzi, viene assunto da molte aziende come nuova pratica organizzativa logistica del lavoro con nuovi modelli contrattuali che tengono conto degli degli obiettivi per aumentare la produttività, delle avanzate necessità culturali, manageriali e tecnologiche che dovranno essere in grado di connettere persone, spazi, oggetti.
Dal punto di vista aziendale, lo Smart working permette di risparmiare sui costi fissi di struttura, di creare un team digitale che lavora da remoto, di entrare allo stesso modo in contatto con il resto dei colleghi, e di ridurre gli spostamenti consentendo una riduzione delle emissioni di Co2 nell’ambiente.
Tuttavia, lo Smart working non implica solo le due alternative casa-ufficio, ma molto altro, in buona sostanza implica lavorare dove ci sia un valore aggiunto per quella attività che si sta svolgendo, in uno spazio di coworking, da un cliente, in una Università, ovunque. Uno dei rischi in un contesto sempre più fluido e nell’era del Metaverso, è l’assenza di confini tra il luogo fisico del lavoro e quello della vita privata, mentre precedentemente in ufficio si creava un distacco tra lavoro e tempo libero.
Senza contare i rischi connessi all’aumento della sedentarietà, ai problemi posturali, alla lacrimazione degli occhi, all’iperconnessione, all’isolamento, possono sfociare in veri e proprie disturbi come il workaholism (dipendenza da lavoro) e la sindrome da burnout. Appare evidente che ci sono molti aspetti da valutare, come per esempio lo spazio rivisto in funzione del lavoratore, del ruolo che ricopre e la tipologia di lavoro che svolge; la difficoltà nel valutare la performance lavorativa; la perdita di controllo sui dipendenti; mancanza di relazioni interpersonali, la mancanza di supporti digitali, e tanto altro.
Il punto è capire chi è adatto a lavorare in Smart working, chi è portato e chi no, esistono infatti diverse modalità di lavoro in Smart working che possono essere plasmate operativamente sulla tipologia di lavoratore, e l’età media elevata dei dipendenti, ha fatto emergere la problematica del personale poco utilizzabile o in eccedenza.
Rosalba Pipitone