Avevo solo dodici anni quando mio nonno materno, Eli Wasersztrum, mi raccontò l’orrore di Auschwitz, il campo di sterminio nazista in Polonia dove era stato internato e nel quale era sopravvissuto solo perchè, parlando molte lingue straniere, il comandante del campo aveva deciso di impiegarlo negli uffici per le comunicazioni, ma neanche a lui furono risparmiate esperienze come la ritualità dell’appello al mattino nella neve a decine di gradi sotto zero o le percosse inflitte per qualsiasi motivo, il tutto in uno scenario surreale nel quale la vita umana non ha più valore. Mi raccontò della giornata tipo del campo e delle piccole lotte per sopravvivere, circondati dai cadaveri, dall’orrendo puzzo di sostanze chimiche e dall’odore di corpi bruciati provenienti dai forni crematori, odore che io stessa ho conosciuto (e che non mi sarà mai possibile dimenticare) visitando il campo di Auschwitz – Birkenau, girando tra le baracche, dove tra le altre cose è ancora possibile leggere i messaggi incisi nel legno dai prigionieri. Ne ricordo uno in particolare: nome, cognome, età, provenienza, e alla fine “dite a mia moglie che l’ho amata e che nemmeno la morte potrà separarmi da lei”. Era un professore di filosofia, polacco, di soli 37 anni. Sua moglie non riceverà mai il suo messaggio, anche lei morta nel campo, ma noi che abbiamo avuto l’immensa fortuna di nascere e vivere potendo godere di diritti e privilegi dovremmo onorare la memoria di chi ha pagato con la propria vita l’essere considerato il diverso. Hitler considerava gli ebrei a capo delle ideologie contrarie al nazismo: il capitalismo, il bolscevismo ed il socialismo andavano tutti ricondotti alla stessa matrice ebraica. Gli ebrei erano la causa della sconfitta nella prima guerra mondiale, delle umilianti riparazioni che ne seguirono, e negli anni venti della galoppante inflazione prima e della crisi economica poi. Con questa teoria Hitler trovava un utile capro espiatorio per acquisire il potere e poi per consolidarlo. Tutto questo si è tradotto nella Shoah. Oggi vengono ricordate 15 milioni di vittime (cifra emersa dallo studio dell’Holocaust Memorial Museum di Washington, tra le vittime anche milioni di omosessuali, rom, disabili, le vittime senza nome dell’Olocausto), sei milioni di queste vittime innocenti appartenevano al popolo ebraico. La paura del diverso e l’antisemitismo sono germi facili da seminare, ma soprattutto difficili da estirpare e ancora oggi purtroppo ne abbiamo moltissime testimonianze. Possiamo contare sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo per proteggerci da simili derive, è vero, ma è sufficiente? La crescente attenzione che in ogni parte del mondo è rivolta ai diritti umani è dovuta soprattutto allo loro sistematica violazione. Questi diritti devono essere garantiti e difesi. Difesi soprattutto da ogni forma di potere ottuso e assoluto. Non dobbiamo dimenticare che la politica del genocidio non è iniziata né terminata con la Seconda guerra mondiale. Eppure, posti di fronte alla realtà storica, all’atrocità commessa dal nazismo, non ci accorgiamo che, con le dovute proporzioni, questa intolleranza, quest’odio viene oggi indirizzato su altri soggetti. Solamente con la cultura si può tentare di arginare questo fenomeno. Fino a quando ci limiteremo a ripetere pedissequamente per un giorno all’anno frasi già dette infinite volte, noi tutti resteremo irrimediabilmente e tristemente figli di Eichmann. Quel capitolo terribile della vita di mio nonno si concluse così: nel tempo riuscì a conquistarsi la fiducia di uno dei soldati delle SS che lo controllava durante il lavoro e questo, a sua insaputa, fu il passaporto per la libertà. Una notte, infatti, nel silenzio del campo avvolto da una incredibile nevicata, lo aiutò a fuggire. Uno straordinario ringraziamento va a lui, per avermi donato, attraverso i suoi racconti, quello che ha ricevuto: la salvezza della propria vita, permettendo a me di crescere nella bellezza della condivisione, nella ricchezza della diversità, nella consapevolezza della differenza tra il ricordo e la memoria, quest’ultima infatti è “un presente che non finisce mai di passare, perchè noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere.”
Florinda Licari