Raramente alzano lo sguardo, non importa dove si trovino e nemmeno cosa stiano facendo, potrebbero viaggiare in un’auto con più persone o addirittura guidare, non farebbe differenza essere passeggero o, purtroppo, autista; seduti a tavola a casa o in un ristorante o semplicemente camminare lungo il marciapiede con la destinazione in mente, ma il viaggio ignorato fa sì che si perda una grande opportunità. Il loro collo è piegato a un angolo di 45 gradi quando fissano lo schermo mentre aggiornano Instagram, Tik tok, Facebook, consumando caramelle o masticando chewingum e con lo smartphone nelle loro mani a cui sembra essere incollato, le dita che premono i tasti freneticamente.
È la Look Down Generation, la generazione dello sguardo in basso: così che vengono definiti i giovani di oggi anche se, in realtà, vengono abbracciate più generazioni.
È qualcosa che molto probabilmente ha a che fare con l’evoluzione della specie se si parla di scarse abilità sociali nella difficoltà a stabilire un contatto visivo, perché tendono a dimenticare che le persone hanno effettivamente occhi e anche un volto; quando si trova perfettamente accettabile portare avanti una conversazione con qualcuno accanto a loro mentre la loro testa non si china mai verso l’alto per rivolgere loro sguardo. Lo si nota nei ristoranti e nelle caffetterie, ma anche in un invito a cena a casa di amici, dove invece di interagire con le persone intorno, ci si perde nel mondo dei social media non riuscendo a mettere da parte la tecnologia nemmeno per la durata di un pasto.
Un editoriale apparso qualche anno fa su The New York Times, ipotizzava un <<downgrade>>, un declassamento dell’umanità di fronte all’incessante <<upgrade>>, l’avanzamento ridondante dell’universo hi-tech. Verosimilmente, nel rapporto tra l’informazione e la capacità di sostenere l’enorme mole di dati di cui si viene bersagliati quotidianamente portando via le ore, viene a mancare qualcosa: l’attenzione, e con essa, l’incapacità di restare concentrati, di andare alla ricerca, di riflettere, di ragionare su ciò che si legge, di unire il pensiero e lo spirito critico all’acquisizione di informazioni –molto spesso solo dati.
Il numero delle SIM attive supera quello degli abitanti dell’intero pianeta, qualcosa come, al termine dello scorso anno, 8,2 miliardi in totale, con un aumento degli abbonamenti alla rete mobile che solo nel 2021 sono cresciuti di 24 milioni di unità; gli smartphone aumenteranno fino a 8 miliardi entro cinque anni e bisogna scomodare Jean-Jacques Rousseau per dire che le <<anime cosmopolitiche>> tanto decantate siamo tutti noi invasi con grande fervore da un grande sentimento di empatia quando, nel segno della globalizzazione, proviamo dolore per tragedie che accadono a migliaia e migliaia di chilometri, per disastri che adesso riusciamo a seguire in diretta di cui in passato non avremmo avuto conoscenza e consapevolezza; noi, gli stessi che ridiamo per video, reels e meme idioti in uno stato di dipendenza in cui l’uso compulsivo dei dispositivi interferisce con il lavoro, la scuola e le relazioni, senza contare le compulsioni online come il cybersex, il gioco d’azzardo, il commercio di azioni, lo shopping online e le offerte su siti di aste come eBay che portano spesso problemi finanziari.
Certamente l’innovazione non è un concetto di passaggio e sta a ognuno di noi moderare l’invasività, stabilire i limiti e confini riappropriandosi del proprio controllo con una consapevolezza reale, e magari con uno sguardo al futuro cercando di esserne scrutatori critici, e con un altro al passato su chi ne fu profeta come Philip Dick che ha saputo essere anticipatore dei nostri tempi con una disarmante lucidità quando affronta temi come la nascita di vita artificiale, il controllo sociale con la tecnologia, l’inganno e la finzione nella comunicazione di massa e in generale la disumanizzazione del nostro presente lasciandoci in dono, quando lo smartphone non era ancora concepito, capolavori come The Truman show, Blade Runner, Vanilla Sky, Minority report e tanti altri ancora.